Andrea, sono io
Adesso tocca a me, e vi racconto un po’ di cose. Anzi, la mia cosa, quella della vita, e quello che è successo dopo. Una di quelle cose strane, che nessuno pensa, che nessuno immagina, che non esiste. Che non guarda, perché porta pure male. Fino a quel giorno, il mio giorno. Era il 28 giugno del 2003, avevo 27 anni, appena compiuti, e stavo a casa. E per fortuna, tra l’altro, perché se per caso guidavo una macchina o un motorino, per strada, e se mi beccava in un momento quel dannato ictus, mi sa che adesso stavo da un’altra parte, e chissà dove. Invece ero a casa, insieme al solito giugno di fuoco, in tutta quell’estate che ci toglieva l’acqua e che non faceva respirare troppo bene, fino alla sera tardi. Io, alla sera, in quel giorno, non ci sono arrivato. Nel coma sono esploso verso il pomeriggio, io non lo ricordo, in un sabato qualunque, a Genova.
Dall’ospedale, al San Martino, il verdetto. Emorragia cerebrale, con la lesione congenita. Eccolo lì, e adesso? Ce l’avevo dalla nascita, ma non lo sapevo, nessuno lo sa, fino a quel momento. Bisognava solo aspettare, e sperare. Gli altri, è chiaro, io stavo dall’altra parte e dormivo. Profondamente, visto che il coma era indotto dai farmaci, per farmi stare calmo e tranquillo. A proposito, il mio cervello malato era quello di sinistra, e già avevano detto, i medici, che io avrò un problema. La parola, e il mio linguaggio. Speriamo bene, due volte.
Io nella mia vita non fumavo e non fumo tuttora, ero a posto, fisicamente e mentalmente, ero magro al punto giusto. Dopo cinque giorni, cinque, cinque la mia vita, cinque il mio mondo, ho aperto gli occhi, senza parlare. Cinque giorni, ed ero un’altra persona. Dalla parte destra, dalla punta del piede fino alle unghie delle dita, tutto era fermo, tutto immobile, come se non ce l’avessi. Chi veniva, a trovarmi rideva e mi parlava, nella terapia sub-intensiva. Io vedevo, e scordavo tutto. Io che da sempre ricordavo non tutto, ma quasi. Io che parlavo, che discutevo, che dialogavo. Tutto questo è volata via, lontano. Puf, ciao. A Genova mi hanno tolto e mi hanno ricucito la vita. Da un’altra parte, era chiaro, ma era sempre la mia, anche se non capivo, anche se non pensavo, se non parlavo, o poco. Ciao, Mamma, Papà, e poco più.
Dopo trentotto giorni, e questo me lo ricordo molto bene pure io, ci siamo messi in moto. Dall’ospedale ad un altro ospedale, da Genova a Roma, nella mia città, dove sono nato e cresciuto. Era il 4 agosto del 2003, e alle 12 in punto siamo partiti, nell’ambulanza. Parlare di un caldo bestiale era troppo poco. Però mi accoglie la capitale, al Santa Lucia, verso le 18, e non dico altro.
Prima, a San Martino, mi hanno ridato la vita. Qui una cosa in più, mi hanno dato un acceleratore, da solo e in piedi, e camminavo, e mi sedevo e camminavo ancora, sempre di più. Il braccio invece era ed è tuttora una carogna, ed è più lenta, la faccenda, molto lenta. Ma non solo. Mi hanno dato la parola. Logopedia si chiama, e l’ho scoperto da solo, sulla mia pelle. E si capiva subito. Per me bisognava cominciare da zero. Un A-B-C, insomma, e così era stato, io che leggevo, io che amavo i libri e i giornali e le poesie, io che volevo quello, scrivere, per vivere. Ora dovevo ricominciare. E, anche qui, sembrava lunga, si capiva, anche se non si diceva.
Al centro, a Santa Lucia, mi hanno messo in piedi, dopo tre mesi, dicendomi: “Ora puoi tornare a casa, la tua, ma al mattino presto devi essere qui, pronto e pimpante”. Day Hospital, questo si chiama, ed era una parola! Io sono dall’altra parte di Roma, Roma nord, sulla Cassia, mentre Santa Lucia sta a sud, sull’Ardeatina. In mezzo, il finimondo. Macchine, tante macchine, quasi dovunque. Dovevo andare presto, prestissimo e l’abbiamo fatto ed ero pure contento. Grazie a Papà, che guidava e che gli piaceva.
Finalmente avevo ritrovato il MIO mondo, non degli ospedali, che erano tutti uguali, puliti, ordinati. Erano ovattati, per me. Nel mondo è tutto il contrario, c’è la puzza, c’è lo sporco. Come nell’autobus, per esempio. Ci sono andato da solo, senza dirlo a nessuno. Era il primo e per poco non ci lasciavo le penne. Quasi cascavo, e meno male che qualcuno mi aveva raccolto, e messo seduto. Pure questo, il primo passo. Sono andato al cinema, e capivo poco. Ho visto lo stadio Olimpico, da dentro, ma non era la stessa cosa. Stavo tanto a casa, a dormire, perché avevo le pillole che mi buttavano giù e perché dovevo studiare, con la mia mamma, che mi aiutava. Da solo, avevo capito una cosa. Che ci vuole tanto tempo. E quanto tempo non si sapeva, e bisognava solo impegnarsi, e basta. Allora piangevo, per la prima volta. Piangevo da solo, chiuso nella stanza. Al tempo ero sempre in movimento, sempre. Ora invece ero sempre a casa, avevo freddo, dovevo pensare, ma era difficile. A dicembre del 2003 ho cominciato a leggere, anzi a rileggere, il mio libro, il Piccolo Principe, di Antoine de Saint-Exupéry. Guardavo prima le figure, poi il libro, piano piano. L’ho concluso nel luglio del 2004, dopo sette mesi. Ero così contento che ne presi subito un altro.
Verso la primavera ho cambiato centro. Non più Santa Lucia ma Don Gnocchi, vicino alla Farnesina, vicino allo stadio Olimpico, e, soprattutto, molto vicino a casa. Facevo anche la piscina, e mi piaceva tantissimo, visto che al mare, ultimamente, non c’era andato, troppo spesso. Il mio braccio, con le dita della mano, cominciava a muoversi. Botulino si chiamava, e il braccio, per la prima volta, era un po’ più sciolto. Sono delle punture, dei veleni ma se vengono utilizzati a piccoli dosi, sono benefiche, prima a Santa Lucia, di sei mesi in sei mesi, poi al Gemelli, più corti, ogni tre mesi. Anche a me davano delle reazioni giuste, sempre di più, sempre meglio. Da quel momento in poi, a cena, alla fine del pasto, avevo la mitica banana. Quella banana, il primo frutto della mia storia mangiata con la sola mano destra.
Intanto capivo meglio, parlavo meglio. Scrivere, come sempre, era la cosa più semplice, più sicura. Avevo capito cosa volevo fare, volevo fare sempre di più, passo dopo passo, anche se era ed è lunga, difficile, ardua. Avevo capito che non avevo niente da perdere, ma tutto da guadagnare. E questa cosa ce l’avevo dalla nascita, e nessuno me la toglie. In fondo curioso lo sono, e pure cocciuto. Dovevo solo riscoprirli, e mi sono messo in moto. Alla fine del 2004, poco prima di Natale, ho cominciato una specie di Master, un corso della Regione Lazio. Per i laureati, sì, come me, ma per quelli un po’ particolari, un po’ strani. Era tutto per i disabili, per chi aveva handicap, ed io ero tutto lì dentro. Il primo giorno ero emozionato, avevo visto i miei colleghi e oggi amici e mi sono detto, da solo: “Sono fortunato”. Ho fatto uno stage, alla Caritas, con gli altri giornalisti, a marzo del 2005, e poi un colloquio, subito dopo, e mi son detto: “Perché no?”. Mi hanno chiamato, io son andato e ho detto tutto, ma proprio tutto, quello che era successo prima, quello che ci sarà dopo, sempre meglio. Quel pomeriggio, mi chiamavano: “Vuoi lavorare da noi?”. Parlavano proprio a me? Non capivo. L’hanno ripetuto. E questa volta l’avevo capito. Dire che ho pianto – e di gioia, eh!! – era forse troppo poco. Piangevo così tanto che non sapevo che dire. E’ una della società satellite di InfoCamere, e la Camera di Commercio io non lo conoscevo. Ora ne so un po’ meglio, e mi arrangio un po’. In più, al mattino, faccio le mie cose, con la fisioterapia al Don Gnocchi e con la logopedia al Gemelli, che mi piace e che mi fa bene, anche se non vedo l’ora di smetterla, fino a quando sarò perfetto. E ce la farò, eccome se ce la farò.
A settembre, dopo i primi sei mesi, nell’azienda mi hanno riconfermato, per un bel po’, tra l’altro. Dire “grazie” non serve e non importa. Voglio fare di più, per loro e per me stesso. E dire a tutti, ma proprio a tutti, che ce la si può sempre fare, anzi, si deve, e bisogna sempre tentare. Non per la famiglia o per gli amici o per gli affetti. Non per i compagni veri, quelli che c’erano prima, e che ci sono tuttora. Serve un po’ di fortuna, quella lì ci sta sempre. Ma soprattutto è solo per se stessi, bisogna trovare la voglia, la forza dentro di noi. Spetta solo a noi e da qualche parte, sono sicuro, ce l’abbiamo tutti, dentro di noi.